 "La dignità non ha prezzo": è l’ultimo assioma di Abete, che richiama, un po’ sinistramente, il precedente: “L’etica non va in prescrizione”.  Due verità indimostrabili, nella loro evidenza, due assiomi appunto e,  come tali destinati ad essere il punto di partenza di tutto un quadro di  riferimento.
"La dignità non ha prezzo": è l’ultimo assioma di Abete, che richiama, un po’ sinistramente, il precedente: “L’etica non va in prescrizione”.  Due verità indimostrabili, nella loro evidenza, due assiomi appunto e,  come tali destinati ad essere il punto di partenza di tutto un quadro di  riferimento. 
Senonché non sembrano aver portato i frutti che ne  sarebbero dovuti logicamente discendere. Coniugando correttamente etica e  dignità, il Signore degli assiomi avrebbe dovuto trovare il coraggio di  dare la giusta collocazione allo scudetto 2006: se i presupposti  dell’attribuzione di quello scudetto erano stati etici, secondo il  parere dei tre saggi, che ne fondavano la possibile assegnazione  sull’illibatezza del potenziale destinatario, visto che i reati possono  andare incontro alla prescrizione (che non ne nega di per sé  l’esistenza, si limita a decretarne la non punibilità), ma l’etica no,  lo scudetto, una volta conosciuta la relazione di Palazzi, nella bacheca  nerazzurra non ci sarebbe più potuto stare. Capitolo chiuso. Non si  trattava di prendere provvedimenti disciplinari o altro: si trattava  semplicemente di prendere atto che era stato commesso un errore. Da  parte della Federazione, che ai tempi era impersonata dal Commissario  straordinario Guido Rossi, ed ora è rappresentata dal Consiglio Federale  capitanato da Giancarlo Abete. Riconoscere l’errore e porvi riparo è  senz’altro una delle massime espressioni di dignità da parte dell’uomo,  fallibile per natura: non averlo fatto non pare davvero giustificare la  chiosa che il presidente federale giustappone al suo assioma: “e penso  di averlo dimostrato in tutti questi anni”.
Ci chiarisca: quando l’avrebbe dimostrato? 
Quando, a proposito delle intercettazioni sfuggite, ebbe a dire: "Come presidente della Federcalcio oltre un certo livello non la cercherò (= la verità, ndr), perché devo tenere conto del ruolo istituzionale della Figc". Alla Figc, da lui rappresentata, non interessava la verità?
Quando ha messo il lucchetto alla vicenda Preziosi?
Quando,  dopo la conferenza stampa del 10 agosto di Andrea Agnelli che  preannunciava le reazioni della Juve all’incompetenza del 18 luglio,  ebbe a dire: “Da presidente della Figc stasera sono più interessato  alla partita della Nazionale e da cittadino sono più preoccupato per la  crisi economica del Paese. Cercherei di guardare al presente e al futuro  anziché guardare sempre nello specchietto retrovisore”?
Quando, sui botta e risposta polemici tra Juve ed Inter, se la cavò con un “I  due club stanno ognuno cercando di difendere la propria posizione. In  questo noi abbiamo un ruolo marginale perché siamo qui a tutelare  l'interesse del calcio in generale, nel pieno rispetto delle regole. Con  il calcio giocato le polemiche svaniranno”? Le conseguenze di  azioni messe in opera dalla Figc non hanno nulla a che fare col calcio  in generale? Dev’essere un duello rusticano tra due club,  nell’indifferenza di chi ha avuto una parte di primo piano allo scoppio  della bagarre? E il ruolo marginale come si concilia con le successive  prese di posizione della Federazione che, nei successivi passi, è andata  a braccetto con una delle due parti, quella nerazzurra? Come ‘mago’ poi  ha dimostrato scarsa attitudine al ruolo, ma in fondo non è questo che  si chiede ad un presidente federale.
Quando ebbe a definire  l’orgoglio con cui la Juventus esibiva al mondo, in occasione  dell’inaugurazione dello Juventus Stadium, i suoi 29 scudetti, non la  rivendicazione di un diritto negato, ma una manifestazione gioiosa e  nulla più? "Non è una diatriba tra noi e la Juve, forse questa  vicenda finirà un giorno ma ora pare troppo presto. Noi sappiamo l'iter  istituzionale e anche la volontà dei tifosi juventini, la ritengo come  una manifestazione gioiosa e nulla più”. Non si immagina nemmeno  quanta rabbia ci sia dietro la ‘gioiosa manifestazione’: e la vicenda  potrà finire solo quando sarà fatta giustizia, non un nanosecondo prima.
Quando,  sul ricorso al Tar presentato dalla Juve per richiedere 444 milioni di  euro di risarcimento, giunto a disturbare sacrilegamente la  concentrazione con cui Giancarlo Abete seguiva la cerimonia di consegna  di un premio in onore di Facchetti, esclamò sdegnato: “Forse non era  il giorno giusto per fare il ricorso. Ricerca di visibilità? Diciamo che  in questo momento si dovrebbero privilegiare altre valenze e non la  logica di certe corporazioni. Questo è un giorno di festa, per il  riconoscimento di una grande persona, e non credo sia opportuno  chiudersi in posizioni di parte, legittime da parte dei soggetti, ma  sempre di parte: in fondo, ognuno ha il proprio stile”. Di quale stile sta parlando? Dello stile Inter, dove, dopo dodici anni e passa, con l’incredibile (ma neanche tanto…)  appoggio dell’ex presidente federale Carraro, ancora rivorrebbero anche  lo scudetto ’98, attaccati come cozze al contatto Iuliano-Ronaldo? Lo  stile ‘piagnoni’ di chi non sa perdere? Di quell’Inter che per anni ha  taciuto di aver tenuto comportamenti analoghi a quelli dei club a vario  titolo sanzionati, esempio preclaro di quella lealtà sportiva postulata  nell’art. 1 del CGS? 
Quando dopo aver detto il 17 novembre che “Fare  collegamenti tra i procedimenti penali e l'ordinamento sportivo è una  violenza nei confronti del mondo sportivo. Sono due ordinamenti diversi.  Per questo avevo detto che qualunque sarebbe stata la sentenza di  Napoli era un grave errore e una forzatura andare a vedere faziosamente  gli effetti che poteva dare”, quattro giorni dopo, dopo aver proclamato che “la giustizia sommaria non è giustizia” (ma allora Calciopoli?) concludeva: “Io rimango alla sentenza di Napoli e alla scelta operata dal Tnas e sono si una chiarezza assoluta”?.
Quando  bollava le richieste di Agnelli come una battaglia di opinione  (un’opinione da 444 milioni), difendendo ostinatamente l’indifendibile  scudetto di cartone? “I presidenti sono legittimati a fare le loro  battaglie di opinione, io devo far rispettare le regole che ci sono. E  al di là dei giri di valzer delle opinioni, i fatti ci danno ragione: ci  dicono che la decisione del luglio è di grande competenza. L’iter  scelto era giusto, lo scudetto è la conseguenza di uno scorrimento di  classifica (lo ha detto anche Tronchetti Provera, che pur avrebbe potuto far mente locale a  quella bazzecola dello spionaggio Telecom, che da solo sarebbe stato  bastevole a macchiare l’illibatezza nerazzurra, ndr) e di sentenze della giustizia sportiva”. Con tanti saluti ai tre saggi e all’etica prescritta.
La  Figc ha una sola via per dimostrare davvero dignità: riconoscere che  nel 2006, col fattivo aiuto degli inquirenti di Napoli, si è sbagliato,  si è colpito in una sola direzione applicando quella giustizia sommaria  che oggi viene rinnegata, addirittura bollata come negazione della  giustizia, e cercare di porre riparo. Intendiamoci, sarà sempre un  riparo parziale: qualsiasi oggetto, quando è riparato, non è più come  nuovo; occorrerà anzitutto restituire il maltolto, gli scudetti, e  pagare i danni: e 444 milioni sono in realtà una goccia, le sole perdite  materiali registrate dal club; ma la Juve non è solo una S.p.A., la  Juve è anche i suoi 14 milioni di tifosi, cui nessuno restituirà mai più  i momenti di serenità persi in questi anni. E il calcio italiano non  tornerà mai più come nuovo: rimarranno i segni di quelle crepe  costituite dalla credibilità persa nell’ultimo lustro (danno ben più  grave, e concausa, della discesa nel ranking Uefa), che ha visto  primeggiare e rafforzarsi una squadra in gran parte profittando della  rovina delle concorrenti, in primis di quella che non sarebbe riuscita  altrimenti a battere: rovina favorita anche dallo sleale silenzio di chi  aveva adottato comportamenti analoghi a quelli che alla Juve vennero  ascritti come peccati mortali (perché l’esclusività dei rapporti era il  pilastro che sosteneva la teoria della cupola), e che erano invece, in  realtà, espressioni di un malcostume diffuso, cui porre fine e, se da  sanzionare, per tutti. Perché non era vero che ”piaccia o non piaccia  agli imputati non ci sono mai telefonate tra Bergamo, o Pairetto, con  il signor Moratti, o con il signor Sensi o con il signor Campedelli,  presidente del Chievo.. Le evidenze dei fatti dicono che non è vero che  ogni dirigente telefonava a Bergamo, a Pairetto, a Mazzini o a Lanese:  le persone che hanno stabilito un rapporto con questi si chiamano Moggi,  Giraudo, Foti, Lotito, Andrea Della Valle e Diego Della Valle”. Non era vero. C’erano. Se le rilegga e se le riascolti bene, dottor Abete. E se Le capitasse di arrossire, passi la mano.
Calciopoli: il prezzo della dignità
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